“Temo i greci anche quando portano doni”. È La traduzione più diffusa delle parole di Laocoonte a proposito del celeberrimo cavallo (Eneide, Libro II, 49).
Eppure, letteralmente, la frase significa: “Temo i Greci e coloro che portano doni”. Ovvero, temo gli uni e gli altri. Le due possibili interpretazioni non confliggono: nel mondo antico il “regalo” riassume in sé tali potenza e valore da doversi temere a prescindere; inoltre, per venire accolto non può che essere restituibile, pena l’ira degli Dei.
Vengono puniti duramente i Troiani, viene punita (con la morte) la figlia del re di Corinto, promessa sposa di Giasone, che accetta le regalie avvelenate della Medea di Euripide. Ma non basta: oltre che ricambiabile, qualsiasi dono deve poter essere reso in modo equivalente.
Glauco e Diomede rifiutano di combattersi (Iliade, Libro VI, 119-236) dopo aver appreso di essere legati da un dono di ospitalità tra i propri antenati. Ma quando riaffermano quel vincolo con la reciproca offerta di armi e armature, il valore degli oggetti di Glauco (d’oro) è dieci volte superiore a quelli di Diomede (di bronzo), e il poeta ci tiene a sottolineare che, per poter consentire lo scambio, Zeus è “costretto” a togliere il senno a Glauco.
Il significato è evidente: in un’economia premonetale l’oggetto in cui il dono si sostanzia rappresenta un valore, e ogni squilibrio nei rapporti dare/avere contiene in sé una fonte potenziale di conflitto. Dunque, ben prima che la velocità di trasmissione delle notizie politico-comportamentali demonizzasse il valore materiale dei doni istituzionali, una forma di “equità” negli scambi è sempre stata considerata necessaria.
Semplificando, è questa la ragione per la quale un dono si può non restituire solo dall’alto in basso; questa è la ragione per la quale sono nati gli scambi in via diplomatica; questa è la ragione per la quale è buona norma, specialmente nel caso di dazione diretta tra soggetti di livello analogo, che il Cerimoniale si curi di conoscere in anticipo le intenzioni dell’altra parte.
Ma in fondo, se si hanno spirito, equilibrio e una buona idea il valore materiale del dono può assumere un significato del tutto secondario.
Giovanni Spadolini conservava in una bacheca a Pian dei Giullari i ricordi di moltissimi incontri, avuti come Ministro, Presidente del Consiglio e, da ultimo Presidente del Senato. Tra medaglie, crest, pressacarte, penne, statuette, raffigurazioni in miniatura di monumenti, palazzi e sedi istituzionali, gagliardetti, bandierine da tavolo e una quantità di altra roba, faceva curiosa mostra di sé un contenitore di vetro pieno di piccole sfere colorate leggermente irregolari.
Lui raccontava volentieri di che cosa si trattasse; per vezzo, certo, ma (è chiaro) perfettamente consapevole di quanto significato “politico” quell’oggetto nascondesse. Gliel’aveva dato Ronald Reagan: l’uomo più potente della terra poteva permettersi di offrire in regalo un barattolo di caramelle di zucchero.
"Le resistenze all'uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche" (Cecilia Robustelli, docente di Linguistica italiana all'Università di Modena e di Reggio Emilia).
La prevalenza linguistica del maschile è un ostacolo sul percorso verso l'uguaglianza (quando in Germania, nell'era Merkel, si parla normalmente di Bundeskanzlerin, Cancelliera; e la Kirchner per tutti in Argentina è la "Presidenta")? Diffidare di "Ingegnera" nasconde una inconscia resistenza all'accettazione della parità di genere? Un manualetto di Cecilia Robustelli appena pubblicato (Donne, grammatica e media - Suggerimenti per l'uso dell'italiano; INPGI/FNSI), propone una concezione "normativa" del linguaggio.
Il libro afferma la necessità della declinazione al femminile di termini come Sindaco (Sindaca), Prefetto (Prefetta), Avvocato (Avvocata, utilizzato chissà perché nelle preghiere e non nei tribunali) eccetera; non nega le cacofonie, ma le ritiene male minore rispetto al sessismo nascosto nella conservazione di tanti termini in "o" difficili da pronunciare in "a"; e siccome questi neologismi fanno fatica a entrare nel linguaggio comune, per accorciare i tempi della loro metabolizzazione ne raccomanda l'uso da parte dei media.
Ma la pubblicazione - promossa dalla rete delle giornaliste di G.I.U.Li.A. - riguarda gli auspici di una diffusione dell'utilizzo dei termini da parte della stampa e non risolve - non potrebbe, neanche volendo - il dubbio che si pone sempre più spesso scrivendo l'indirizzo su una busta o l'intestazione di una mail: le parole Ministra e Assessora (che non sono per propria natura "sbagliate", come non sono "giuste" Maestra, Infermiera o Cuoca) devono o possono essere utilizzate nella corrispondenza?
Dovendo scrivere a UNA Sindaco, come è giusto indirizzare la lettera? Senza entrare nel merito ("il Presidente" no, d'accordo, ma è più giusto "la Presidente" o "la Presidenta"? Noi preferiamo la decinazione dell'articolo - la Prefetto, la Architetto - ma è solo un parere), crediamo che sia opportuno informarsi circa le preferenze dell'interessata, per evitare di chiamare "chirurga" una medico - la medica? - chirurgo, se lei stessa preferisce il maschile usato come "neutro" (tra virgolette, lo sappiamo che il neutro in italiano non esiste...).
Bene, è complicato, ma prima di mandare una busta indirizzata alla Signora Giuseppina Tubi, Sindaca del comune di Topolinia, consigliamo una telefonata alla sua segreteria o a chi ne fa le veci. Se piace mandatela così, sennò, desistete... Tra dieci anni vedremo che sarà successo. Quando un termine, un atteggiamento, un capo di abbigliamento (ahinoi) entra nell'uso collettivo, dopo un po' diventa "giusto" anche se a parere di qualcuno rimarrà sbagliato per sempre.
E' bello che non si mettano più i frac? E che l'uso dei biglietti da visita fuori dal lavoro stia scomparendo? E che quasi più nessuno sappia fare il baciamano e servire in tavola "alla russa"? Forse no, ma il "bon ton", piaccia o non piaccia, è il figlio naturale di un sentire comune dietro al quale, alla fine, passassero cent'anni le società si allineano senza eccezioni. Non fosse così, le infermiere (di chirurghe non ce n'erano), girerebbero ancora con le gonne lunghe.
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Quanto alla grammatica, riportiamo di seguito quasi testualmente, condividendone l'approccio e i contenuti, un commento al citato articolo della Crusca ("inviato da paolam il 19 marzo 2013").
Nei nomi in -o il femminile esce in -a : avvocato/avvocata, impiegato/impiegata; i nomi in -e non cambiano, perché hanno la stessa uscita per il maschile e il femminile: giudice, vigile, insegnante, docente (che in realtà è un participio sostantivato, cioè una forma verbale usata come nominale); oppure hanno acquisito una uscita in -a per il femminile: parrucchiere/parrucchiera, infermiere/infermiera; i nomi con terminazioni di origine greca, come quelli in -sta, -ta, hanno la stessa uscita al maschile e al femminile: pianista, ginnasta, giornalista, pilota, astronauta. I nomi "di agente" di origine latina, come dot-tore, at-tore, diret-tore, revis-ore, profes-sore, al femminile escono in -trice. E solo questo, in alcuni casi fa difficoltà: infatti, se si può dire attrice e se si può dire direttrice, è impossibile per la fonetica della lingua italiana pronunciare la parola professrice, oppure revisrice. In questi casi di incompatibilità fonetica può soccorrere l'uso storico della lingua italiana, che per alcuni nomi maschili in -tore ha creato, per analogia con i nomi in -o/-a, l'uscita in -tora per il femminile, ragione per cui il femminile di fattore era fattora, e non fattrice. E' per questo che è stato proposto di adottare la forma professora al posto di professoressa, cui fa da ostacolo, però, un uso ormai lungamente consolidato. Il femminile di dottore potrebbe benissimo fare dottrice, parola realmente esistente in latino (doctrix) come appellativo, ma anche dottora (sebbene più "volgare" in senso linguistico). AGGIUNGIAMO NOI: dottoressa perché no?